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Carmelo Mezzasalma

 

Diario di preghiere (Poesie 2006-2011)

 

Prefazione di Giovanni Occhipinti


 

2011 – ppp. 86 - € 10

 

ISBN 978-88-6430-043-6


 

L'autore

 

Carmelo Mezzasalma ha pubblicato il suo primo libro di poesie, Le isole vaganti, nel 1976 con le Edizioni Forum/Quinta generazione. Ha fondato con Antonio Basile, ma proseguendo poi da solo, «Hellas. Rivista di letteratura e mito» (1978) e, in seguito, «Feeria. Rivista per un dialogo tra esodo e avvento». Successivamente, ha tradotto il Cantico dei Cantici (Ibiskos, Empoli 1995) e dallo spagnolo l’edizione integrale delle Poesie di san Giovanni della Croce (Edizioni Messaggero di Padova, 1999). Ha collaborato con diverse riviste italiane e straniere con recensioni e saggi di letteratura. Questo suo secondo libro di poesie vede la luce in occasione della sua ordinazione presbiterale nella Diocesi di Fiesole (30 aprile 2011).



 

Non sappiamo


 

Non sappiamo mai quando la porta

 

si chiude dove andiamo. È così

 

facile mostrarsi freddi e distaccati:

 

Signore, fa’ che dietro la porta chiusa

 

il destino imponderabile dell’anima

 

non metta il più silenzioso catenaccio

 

perché noi non possiamo più entrare.


 

Un sogno per mia madre


 

Ho visto, per un attimo, nel sonno

 

che Tu, Madre, coglievi petali di rose:

 

a chi vorrai donarli ora che quel

 

tuo volto mite è un lontano,

 

ma ferreo ricordo?

 

Madre che non hai più voce,

 

confida a me la tua,

 

ora accordata sull’Eterno.


 

 

Asterischi del silenzio e della memoria

 

Una nota dell’Autore

 


Ho pubblicato la mia prima ed unica raccolta di poesia nel 1976 con il titolo Le isole vaganti. La pubblicai con le edizioni di Forum/Quinta generazione, dirette dall’indimenticabile Giampaolo Piccari, e fu un’esperienza entusiasmante e al contempo quasi frustrante. È vero, infatti, che Mario Luzi accettò di scriverne una prefazione che, pur non cogliendo del tutto, con grande rispetto del suo intuito critico, lo spirito se posso dire “ispirativo” del mio mondo poetico, ne colse tuttavia la pregnanza di significato e di messaggio lirico. È altrettanto vero che mi giunsero – così giovane e sconosciuto – gli altri riconoscimenti da parte di poeti e scrittori come Carlo Betocchi, Vittorio Sereni, Alessandro Parronchi, Vasco Pratolini, Pier Francesco Listri, Giuseppe Zagarrio e tanti altri che appartenevano a quella società letteraria che, a quel tempo, non era solo ancora viva, ma un vero punto di riferimento per chi si affacciava, come me, nel variegato e inquieto mondo delle lettere italiane. Dovrei nominare anche tanti altri poeti e scrittori che, pur non godendo di una notorietà diffusa, avevano dato alla poesia di quegli anni di “febbre, furore e fiele” – per usare una efficace ricostruzione critica proprio di Zagarrio – una esemplarità di risultati che non aveva nulla da invidiare agli esempi maggiori che ho citato. Della mia Sicilia farei i nomi di Emanuele Schembari, Giovanni Occhipinti e di quell’infuocato pittore che era allora Franco Cilia. Guardando un po’ più in là, quelli di Dante Maffia, Paola Lucarini Poggi, Silvio Raffo. Taccio di tanti altri non per carenza di memoria o di gratitudine, ma per non appesantire troppo questa confessione sull’attività poetica che vede un silenzio di circa trent’anni.

 

È stato un silenzio imposto o voluto, un arresto della fiducia nella poesia, un cambio di direzione pur restando sempre, in un modo o nell’altro, nel territorio della letteratura? Forse è stato un po’ tutto questo, ma a distanza di anni vedo con chiarezza che, per quanto possa sembrare strano o comodo, in realtà, dopo quel promettente esordio, non avevo fiducia in me stesso o, perlomeno, forse lottavo interiormente per conquistarla. Una condizione tutt’altro che personale, anzi assai diffusa, per chi si è trovato a vivere, come la mia generazione, un passaggio epocale – nei molti altri che ancora oggi incombono – tra una letteratura come esperienza di vita e una letteratura di mercato, votata unicamente al successo, alla notorietà, alle cordate di schieramenti fra Nord e Sud e di poetiche regionaliste.

In ogni caso, il mio esordio poetico con le edizioni di Forum/Quinta generazione mi riempie ancora il cuore di una fitta nostalgia per quegli anni in cui la poesia, forse nel bene e nel male, rappresentava ancora la parte più emblematica e quasi più alta del fare letterario. È difficile tentare, anche solo per brevi cenni, di descrivere quegli anni che ancora non sapevamo essere gli anni del tramonto di una certa idea di letteratura e anche di cultura. Ma c’era nei giovani e meno giovani un entusiasmo e una generosità verso la scrittura poetica che ben presto sarebbero state spazzate via dal consumismo e da un alienante e massiccio ritorno al “privato”. Le avvisaglie di questo tramonto mi pare fossero nell’irrompere improvviso (e sostenuto dalla grande editoria) di quelle nuove avanguardie – penso al Gruppo ’63 – che volevano rinnovare lo statuto della poesia, mentre, di fatto, la riducevano a poco più che un semplice divertimento linguistico ed espressivo con le loro acrobazie di linguaggio e i loro impossibili contenuti. Certo, con rare eccezioni, come Elio Pagliarani, ed altri a me molto vicini che sentivano in sé l’aria dei tempi, per dirlo con Camus, come quasi un necrologio per la poesia italiana in un mondo che non aveva più bisogno di alcuna poesia. Alcuni amici, come Antonio Basile, allora, preferirono battere una strada di rinnovamento e di denuncia partendo dalla crisi stessa della civiltà occidentale che Nietzsche aveva denunciato per primo agli inizi del Novecento e tornando a una scrittura dirompente sull’esempio di Dino Campana. Altri smisero di scrivere ed altri ancora, forse, io li ho persi per strada, anche se i più tenaci e motivati hanno continuato a scrivere e pubblicare fino a oggi, sebbene quasi ai margini dell’editoria di mercato che ha preferito la poesia dei così detti “poeti laureati” con qualche rara incursione, anche se efficace, nella poesia straniera contemporanea. Sarebbe un discorso lungo che non è possibile qui fare perché occorrerebbe maggior spazio e una vera impostazione critica rispetto a questa semplice nota che vuole soltanto rendere ragione, se sarà possibile, di quel silenzio che ho mantenuto per trent’anni sulla poesia.

Torno così al discorso iniziale circa l’entusiasmo e la frustrazione che seguì al mio esordio poetico. La poesia, se così posso dire, delle Isole vaganti nacque, inaspettatamente, da una forte crisi di smarrimento che mi investì un giorno nei giardini intorno alla cattedrale di Nôtre-Dame a Parigi. Ero allora uno studente di pianoforte e pensavo che l’attività di pianista fosse il mio destino, ma il contatto con le sale da concerto e con il pubblico mi fece capire assai presto che ciò che cercavo nella musica era molto di più di quel “successo” quale intravedevo, pur con tutte le mie ingenuità, nel modo in cui era organizzato il mondo musicale. Sulla musica avevo investito tutto, che cosa fare allora? E quel giorno, nei giardini di Nôtre-Dame, quando lo smarrimento giunse fino alle lacrime, d’un tratto sentii affiorare quella prima poesia che apre il libro e che porta il titolo Forse la solitudine. Con i primi versi affiorò anche tutto il mondo della mia infanzia e della mia prima adolescenza, quell’“infanzia greca” che, di fatto, è il vero tema di tutto il mio percorso poetico di Le Isole vaganti. Scoprii il valore della memoria e lo scoprii ancora di più riprendendo subito in mano la Recherche di Marcel Proust che, nel passato, non ero riuscito a frequentare, pur desiderandolo molto. Comunque sia, allora – anche scrivendo febbrilmente quelle poesie che avrei completato e rivisto tra Ragusa e Firenze dopo il mio ritorno da Parigi – non sapevo di vivere quella sorta di affrancamento dalla “letteralità” della vita che, come dice proprio Proust, «scorrendo lentamente nella sua frammentarietà e precarietà, non ci offre di coglierne il senso e la verità emozionale». La stessa crisi che vivevo mi poneva di fronte a una situazione di difficile interpretazione e di cui non mi era facile cogliere la complessità che avrei alquanto dominato negli anni e nelle vicissitudini che seguirono. Ad ogni buon conto, Le isole vaganti furono il ritrovamento della mia piccola e forse insignificante “madelaine”, ma anche la constatazione che l’essere umano è essere poetico, nel senso greco del termine, ossia un essere che agisce creativamente nel mondo. Naturalmente, i critici e gli amici che mi lessero non sapevano, neppure da me, tutto questo, anche se ci furono delle vere eccezioni, – guarda caso della mia Sicilia – come Emanuele Schembari, che colse subito la profonda dimensione religiosa del libro, o come Giovanni Occhipinti cui non sfuggì il conflitto metafisico di una memoria sospesa tra passato e presente, tra il rimando alla classicità e la condizione contemporanea. Giovanni Occhipinti che ora ha accettato di stendere una prefazione a questo secondo libro poetico e che qui ringrazio nello spirito di una indefettibile amicizia, nella vita e nella poesia, durata fino ad oggi. Lo stesso Franco Cilia, interamente votato alla sua ricerca artistica, mi onorò di una stima profonda anche perché intuì che, dietro la poesia, c’era lo sforzo di abbracciare questioni culturali e di vita di portata più vasta che quelli di una confessione privata di poesia. Tutti, dunque, veri amici, innamorati della poesia, pur soffrendo in qualche modo di essere lasciati ai margini di quanto si diceva e si affermava in un’Italia profondamente divisa, anche nella cultura, tra il profondo Sud e l’orgoglioso Nord.

Eppure, mi ferì, in un certo senso, la lettura che venne fatta di quel libro di esordio poetico che non andava letto – così pensavo, ingenuamente – sul piano prettamente esistenziale, e cioè di confessione dell’io, hic et nunc, bensì più profondo di una creatività che voleva vivere per donarsi agli altri in un impegno che avrebbe potuto trasformare in bene le lacerazioni in atto nel farraginoso e inquieto “presente”. Che ci sia riuscito o meno, questa è un’altra questione. In ogni caso, è ciò che vivevo in quel momento scrivendo e anche pubblicando. La poesia era per me impegno verso il mondo e aspirazione a migliorare la vita degli uomini. Non avevo ancora chiaro, tuttavia, che, pubblicando, ci si espone sempre ad un “giudizio” degli altri che interagiscono, in un modo o nell’altro, con le sollecitazioni e le provocazioni del testo in una maniera non solo soggettiva, ma anche e soprattutto legata alla cultura di questo o quel momento storico-culturale, con le sue ansie di rinnovamento e i suoi interrogativi ancora in gestazione, per così dire.

Poi ci furono gli anni di «Hellas. Rivista di Letteratura e mito» (1978-1986), nata sull’onda della scoperta della psicologia del profondo di James Hillman, allora non noto in Italia e di cui Adelphi aveva pubblicato da poco il suo ormai celebre Saggio su Pan e che mi impressionò moltissimo per il suo movimento interiore e fuori dagli schemi culturali di quel mo-mento – tornare indietro per andare avanti –, per ritrovare la vita dell’anima che premeva di uscire dalle strettoie di soffocanti ideologie, mentre proprio il recupero del mito poteva suggerire alla modernità di non tagliare di netto le sue radici anche cristiane. Ecco, nei miei intenti, il ricorso al mito. Fondata con l’amico e acutissimo poeta Antonio Basile, rimasto anche lui ai margini della vita letteraria (ma guadagnando moltissimo in intensità e penetrazione di significati), «Hellas» rappresentò per me, a livello profondo e non facilmente dimostrabile con argomenti razionali, non solo la difesa di un ideale “umanistico” nel fare letterario contemporaneo, ma anche e soprattutto l’accettazione definitiva della mia fede cristiana come percorso-guida del mio futuro e delle mie scelte in un campo, scivoloso e accidentato, come quello della letteratura. Tant’è vero che Antonio, dopo il primo numero della rivista – che presentammo a Prato in una serie di incontri dedicati alle tappe più significative della poesia del Novecento –, si ritirò dall’impegno, lasciando a me la scelta, senza mezzi finanziari e senza ancora nessuna credibilità letteraria, di continuare o meno la rivista. In realtà, i nostri percorsi, o per meglio dire le nostre ricerche personali, si divisero in quel momento: Antonio, sfruttando spiritualmente la sua passione per i viaggi in Oriente e in Occidente, sarebbe approdato, nella sua poesia, a una singolare osmosi tra saggezza occidentale e saggezza orientale, in particolare della tradizione buddista, mentre io avrei sperimentato la forza ancora intatta di un cristianesimo capace di dialogare ed anzi di essere lievito di una concezione della letteratura autentica che non si lasciasse trascinare dalle derive di ciò che, di lì a poco, sarebbe stata la postmodernità. Eppure, entrambi, io credo, pur nella diversa e forse opposta prospettiva, ci saremmo ritrovati alla fine in un medesimo solco “religioso” nell’ansia di non fare della poesia un’esperienza troppo legata ad una attualità di maniera, e quindi insincera e fuorviante rispetto alla posta in gioco che credevamo improrogabile per tutta la nostra cultura. Certo, indubbiamente, eravamo alquanto ingenui nel credere che la poesia potesse svolgere un ruolo così decisivo per la cultura, mentre i giochi veri si facevano e si fanno sempre altrove. Ma tant’è. Senza utopia o speranza non c’è poesia.

 

Tuttavia, prima di separarci – ma solo sul piano della “poetica” – Antonio ed io, poco tempo prima di dare avvio alla fondazione di «Hellas», compimmo un viaggio-pellegrinaggio nella terra per eccellenza del mito, la Grecia, la culla della cultura occidentale, dell’umanesimo classico, della filosofia e di Socrate e Platone, l’anima insomma di una cultura che ancora produceva frutti straordinari e quasi contemporanei come quelli di Kavafis, Seferis, Elitis, Ritsos, Katzanzakis. Di quel viaggio in Grecia conservo ancora alcune pagine di diario davvero “visionarie” e dove sperimentavo quanto fosse fragilissimo quel diaframma che separa il tempo da un passato remoto e oramai morto dal presente e dal futuro. Viaggiavo, infatti, nella terra greca e tra le sue rovine millenarie, in una sorta di estatico rapimento interiore che, in ogni caso, non mi allontanava dalla bruciante attualità anche per effetto del turismo di massa che allora appena cominciava. Un rapimento e una immedesimazione di sensibilità e di pensiero che soltanto molto, molto più tardi avrei trovato esplicitato nelle pagine di Marìa Zambrano: «Le rovine sono la cosa più viva della storia, perché vive storicamente soltanto ciò che è sopravvissuto alla sua distruzione, ciò che è rimasto sotto forma di rovine. In tal modo le rovine ci darebbero il punto d’identità tra il vivere personale, la storia personale, e la storia» (M. Zambrano, Le rovine, in L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 228). Ma soprattutto di quel viaggio conservo un ricordo che qui racconto per la prima volta, forse perché potrebbe aiutare a spiegare (e a spiegarmi) qualcosa non solo delle mie interrogazioni profonde di quel momento, ma anche delle mie scelte future. Non me ne voglia l’amico Antonio Basile che fu pure co-spettatore di quell’episodio e che lui ha raccontato, in una interpretazione diversa e, ovviamente, tutta personale, nel suo bruciante poema Dionisiaca.

Eravamo a Delfi in quella calda e luminosa ora meridiana di luglio del 1977. Delfi, il luogo più sacro della Grecia antica e della Pizia, delle rovine del tempio di Apollo così strette all’abbraccio di una montagna aspra e colma di silenzio. Appoggiato ad una colonna del tempio, scrivevo le mie impressioni di viaggio, ma ad un certo punto un pensiero attraversò la mia mente come un fulmine: la storia non stava dimostrando che il cristianesimo, nei costumi e nella cultura, era ormai una realtà definitivamente superata? Il paganesimo poteva essere un fatto ancora vitale? Mentre così pensavo, d’improvviso alzai la testa istintivamente e sulla colonna tre colombe bianche – che prima non avevo notato – si alzarono in volo con un battito d’ali tale che squarciò, fragorosamente, il silenzio di quel momento come un solenne avvertimento di diniego. O, almeno, così fu interpretato da me. Subito dopo, da lontano, un tuono. Oh, certo, semplici coincidenze e che influirono, come sempre accade, in una sensibilità come la mia troppo entusiasta, impressionabile, inesperta, forse un poco narcisista. Chissà. No, non potevo comunque rinunciare – mi dissi in quel momento – a Gesù Cristo, mai, e alla potenza della sua Risurrezione, neppure nel grande amore che avevo verso la poesia. Il Dio cristiano e la poesia dovevano camminare insieme, mai l’uno senza l’altro, e intuendo lì per lì il rischio che correvo. Pochi avrebbero accettato quel connubio, e nonostante che, nella nostra letteratura, ci fossero stati i cardini del suo statuto in Dante, Petrarca, Tasso. Ma la modernità era un’altra cosa, soprattutto dopo Leopardi, che pure amavo, nonché tutta l’avventura poetica del Novecento. L’avrei capito presto e ne avrei fatto un poco le spese con diffidenze e antipatie più o meno esplicite. Forse, un tratto del mio silenzio poetico partì, almeno inizialmente, da lì. Per timore, vigliaccheria, paura.

Comunque sia, al mio ritorno a Firenze mi buttai nella rivista «Hellas» con un impegno che suscitò, tra l’altro, proprio tante diffidenze e critiche, ma anche il messaggio di plauso di Eugenio Montale, da qualche anno Premio Nobel per la letteratura, Giuseppe Conte, Giorgio Luti, Geno Pampaloni, Giorgio Saviane i cui splendidi romanzi da Il Mare verticale a Getsemani giacciono, non si capisce il perché, nel grande e interminabile “rimosso” della nostra letteratura contemporanea. Ad ogni modo, alla rivista riuscii ad affiancare una collana di poesia, I Quaderni di Hellas, che mi permise di lavorare intorno a tanti poeti anche con interventi critici che testimoniano la passione e gli interessi culturali di quel momento della mia esperienza. «Hellas» diventò poco alla volta un punto di riferimento ed è stato un certo dolore per me chiuderla allorché mi accorsi che l’esperienza non dava gli stessi frutti che aveva dato al suo inizio. Di fatto, l’incontro con tanti poeti, esordienti o meno, e con le loro poetiche diverse l’una dall’altra, mi arricchirono di una frequentazione delle possibilità che poteva ancora aprire la poesia. Verso questi poeti esercitavo, senza saperlo (ma qualcuno lo disse esplicitamente), una specie di “apostolato” a favore della letteratura e della cultura in genere. Furono anche gli anni nei quali, insieme all’infaticabile Paola Lucarini Poggi – straordinaria poetessa che mi fu presentata da Mario Luzi –, creammo un vero e proprio sodalizio per lanciare a Firenze poeti e scrittori, in tanti incontri e convegni che di solito tenevamo nella grande sala della Biblioteca Comunale. Di questi incontri ricordo particolarmente, per una ragione affettiva, quello con Stanislao Nievo, pronipote del grande Ippolito Nievo, con il suo bel libro Il prato in fondo al mare. Ippolito Nievo, in effetti, era tra gli scrittori del nostro Ottocento da me più amati e studiati. Quel sodalizio con Paola e quegli incontri, pur nella fatica di organizzare, creano ancora in me una certa nostalgia per il loro carattere spontaneo e al contempo impegnato, ma in un clima di amicizia.

 

Intanto, proprio a quel tempo, la mia passione educativa venne sempre più fuori e con i miei ex-alunni della scuola privata, l’Istituto del Sacro Cuore di Firenze, fondammo «Feeria» che allora portava il sottotitolo «Un foglio per una giovane letteratura». L’intento era quello di raccogliere intorno alla rivista i giovani talenti e mai e poi mai avrei pensato che da questo nuovo sodalizio sarebbe poi nata la Comunità di San Leolino. A quei miei ex-alunni, diventati amici, avevo fatto conoscere J.R.R. Tolkien, lo straordinario autore de Il Signore degli Anelli, sebbene allora si sapesse in Italia veramente poco di questo autore, e fu da Albero e foglia, pubblicato da Rusconi, come già la saga di Frodo, che i miei ex-alunni vollero trarre spontaneamente il titolo da dare alla rivista. Uno dei saggi di Albero e foglia faceva slittare, sapientemente, le complesse tonalità della fiaba nella spiritualità evangelica. Era per me, infatti, un grande cruccio l’idea di poter aiutare ed educare dei giovani alla vita letteraria senza che conoscessero le ricchezze che poteva dare la fede cristiana alla loro vita e al loro futuro. Mi sembrava di ingannarli tacendo la verità di Dio proprio in un mondo già secolarizzato e soprattutto profondamente segnato da un consumismo che avrebbe distrutto sicuramente il loro talento e la loro individualità. Non mi era ignota la celebre denuncia di Pier Paolo Pasolini circa la distruzione di una certa idea di giovinezza, fatta proprio dal consumismo che il poeta di Casarsa chiamava “il nuovo Potere” e che così descriveva in una famosa intervista che suscitò un vero e proprio vespaio: «Che tipo d’uomo vuole il nuovo potere della seconda rivoluzione industriale? Non vuole più che sia un buon cittadino, un buon soldato, non vuole che sia un uomo onesto, previdente, non lo vuole tradizionalista e nemmeno religioso. Al posto del vecchio tipo d’uomo, il nuovo Potere vuole che sia semplicemente un consumatore» (20 ottobre 1973). Si badi, nemmeno religioso, affermava Pasolini. Ed io, al solito, camminavo controcorrente, forse senza averne piena coscienza. In ogni caso, quei giovani di «Feeria» erano una specie di giovinezza in via d’estinzione, ma allora né loro né io lo sapevamo. La rivista «Feeria» fu presentata all’Istituto «N. Stensen» di Firenze da Dino Pieraccioni e Mario Luzi il cui discorso, rivolto a me, mi stupì non poco per il suo carattere elogiativo e che solo dopo diversi anni ho accettato che venisse pubblicato nella nuova serie di «Feeria» che, dopo l’irrompere della giovinezza cristiana, cambiò il sottotitolo in «Rivista per un dialogo tra esodo e avvento».

Sono giunto, così, dopo un periplo per certi versi tumultuoso, e non facile da esplicitare in pochi tratti, al mio presente e alla decisione di pubblicare, in occasione della mia ordinazione presbiterale, il secondo libro di poesie con il titolo Diario di preghiere. Che cosa mi è accaduto? Almeno in una succinta sintesi vorrei tentare di chiarire, agli altri e a me stesso, da dove è nata questa decisione, sebbene, come tutte le decisioni davvero motivate, vengano più dal profondo che dalla semplice razionalità che è sovente pragmatica e funzionale. Crescendo, un poco alla volta, nella conoscenza e importanza della letteratura e della poesia in particolare, ho maturato la convinzione che la poesia rientra in quel lavoro umano che, secondo il racconto della Genesi, è una vera e propria missione data dal Creatore e che si colloca nell’orizzonte del riposo sabbatico (Gen 2,2). In quest’ottica, il lavoro dell’uomo è alternanza di attività e riposo. Riposo che ricorda la liberazione dalla schiavitù d’Egitto (Dt 5,12-15) e che si può anche intendere come l’attività creativa dell’uomo. Così, la creazione poetica è un lavoro che è riposo e riposo che è attività. È agire gratuito e libero che ha un senso, ma non uno scopo. Esiste non per un’utilità tecnica, bensì per essere una forma che rivela. Non mira a nulla, ma significa. Non vuole nulla, ma è.

Con l’evento dell’Incarnazione di Cristo, poi, l’ordine della creazione e quello della salvezza giungono a un punto di confluenza. Il mondo non è un semplice scenario della storia della salvezza, ma anch’esso rimarrà toccato dalla grazia di Cristo (cfr. Rm 8) ed è chiamato, per mezzo della mediazione umana, all’unità di un destino in cui «Dio sarà tutto in tutte le cose» (1Cor 15,28). È solo nello Spirito che si rivela, dunque, il mistero della creatività anche poetica, e nello Spirito si può conoscere la vera natura dell’uomo: «Lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? […] Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (1Cor 2,10). Rientra in questa prospettiva anche l’attività della cultura che Dio ha donato all’uomo, come ha stupendamente affermato il concilio Vaticano II: «Con il termine generico di cultura s’intende tutto ciò con cui l’uomo raffina ed esplica le molteplici risorse dell’anima e del corpo […], rende più umana la vita sociale […]; esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, perché servano al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano» (GS 53).

 

Si potrebbe dire tutto questo anche con una splendida pagina di Berdjaev nel suo saggio Il senso della creazione e con la quale vorrei chiudere questa lunga nota sulla mia esperienza poetica: «Nel mistero della redenzione si rivela l’amore infinito del Creatore per l’uomo, e su di noi si riversa la sua grazia infinita. Nel mistero della creatività, invece, si rivela la natura infinita dell’uomo stesso e si realizza il suo supremo destino. L’amore non è solo nella grazia, ma è anche nell’attività creativa dell’uomo […]. Dio ora attende che l’uomo, associato al mistero della redenzione, compia liberamente l’opera della creazione, realizzando così la propria vocazione positiva. L’amore di Cristo è già la creazione di una vita più alta. La creatività è appunto l’energia dell’amore che si manifesta nell’uomo […]. Dio attende dall’uomo non solo la vittoria sul peccato, ma anche la manifestazione dell’amore creativo, il coraggio dell’amore, cioè la realizzazione della vocazione umana» (N. Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Jaca Book, Milano 1994, p. 141, il corsivo è mio).

Se tutto questo è vero, come credo sia vero, non sorprende più di tanto che i cristiani, per non parlare dei santi e delle sante, amino scrivere poesie e anzi hanno un compito preciso verso la poesia dove si condensa il mondo del linguaggio nell’atto di custodire e creare. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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